(No) good thoughts for new year
(“Perché dovremmo preoccuparci dell’arrivo delle piogge quando possiamo creare per sempre?")
Ultima, rapida, newsletter di fine anno.
Che quelle che per gli altri sono le vacanze natalizie per me siano un periodo di bilanci (sbagliato, come ricorda l’analista: siamo troppo complessi per i bilanci) è noto a chi mi conosce (e sa che i bilanci sono sempre in rosso). Per far passare questo periodo senza essere preda di pensieri troppo oscuri, oltre a lavorare come un bastardo, tento di fare un po’ di wrap up, tra letture e visioni che mi facciano dimenticare che un paio di agenzie pubblicitarie con cui collaboro usano già l’AI e che se non moriremo tutti per la crisi ambientale, moriremo di fame per mancanza di lavoro.
A proposito di crisi ambientale, sono finalmente riuscito a leggere “Il mondo senza fine” di Christophe Blain e Jean-Marc Jancovici
I dati e le soluzioni che nessuno vuole prendere in considerazione quando i dati sono tutti sulla scacchiera sono tutti qui.
Comprensibilissimo chi contesta il fatto che non venga mai detto "capitalismo", e sicuramente è una pecca non averlo almeno considerato tra "le soluzioni difficili da applicare" (dato che si parla anche di diminuzione della popolazione e giustamente viene scartata subito, perché eticamente come si fa anche solo a postulare di poter intervenire su questo aspetto?).
Eppure ci troviamo nella situazione in cui è più difficile immaginare la sparizione del capitalismo che il salvataggio della razza umana (secondo che sistema economico, poi?): in ogni caso lo sforzo coordinativo, legislativo ed economico da fare sarebbe così enorme... che semplicemente non si farà.
In denial totale, il giorno prima ci berremo un aperitivo, e il giorno dopo saremo stupiti che non ci saranno più elettricità, cibo e acqua.
Comunque, a prescindere dalle posizioni di Jancovici sul nucleare, sarebbe un testo obbligatorio per le scuole.
Allegria, vero? Quindi parliamo appunto di cose belle: il mio auto-regalo di Natale è stato The American Comic Book Chronicles- The 1990s - 1990-1999, che finalmente ho finito.
Quando ho cominciato a leggere fumetti erano gli anni '90: anni di boom e contrazioni, di case editrici che aprivano e chiudevano poco dopo.
Onestamente per me quella fu la normalità di un decennio.
Solo col tempo ho compreso che quelli furono 10 anni deliranti, di tante vittorie ma ancora di più di tantissimi fallimenti.
Da non professionista e da semplice lettore, mi limitai a godermi quell'offerta vastissima, pure troppo, spesso di qualità non eccelsa (e sì, me ne accorgevo anche all'epoca, ma la gioia della scoperta era così grande che ci si faceva andare bene anche uscite di scarsa qualità). C'era tanto, ed era tutto nuovo.
Leggere un libro così preciso, che storicizza quel "rise and fall" allucinante, è stato quindi non un viaggio nei ricordi, ma come infilare un paio di occhiali che hanno permesso di mettere a fuoco una realtà che da non professionista non mi era per nulla chiara e che per certi versi fu drammatica.
L'Image, la Valiant/Acclaim e le case editrice fondate da Shooter che chiusero dopo poche uscite, la Malibu, il trionfo degli X-Men, la stabilità di Dark Horse (con l'etichetta Legend prima e con i fumetti in licenza di Star Wars), scoprire con sconcerto quali furono i fumetti più venduti nel 1997, 1998 e 1999 (The Darkness con 300.000 copie, Fathom, Tomb Raider della Top Cow con 194.000).
Lettura imprescindibile se amate i fumetti e se avete vissuto quella stagione irripetibile.
Questo per quanto riguarda le letture. E per quanto riguarda l’audiovideo? Orbital Operations, la newsletter di Warren Ellis, è sempre fonte di scoperte di perle dalla storia della TV britannica. Con il mio partner in crime, anche lui appassionatissimo di serie tv inglesi, ci siamo sparati alcune miniserie/film televisivi vintage menzionati da Ellis, come Corridor People (from the 60s), Beasts e The Stone Tape di Nigel Kneale (from the 70s)… e l’ultima in ordine di tempo è stata la miniserie di sei episodi Edge of Darkness (1985).
Vi parlo solo di questa miniserie e non delle precedenti, perché… The Corridor People è veramente un prodotto talmente surreale da risultare quasi incomprensibile e potreste finire la visione con un semplice WTF (ma anche con un “Chi ha detto che andava bene scrivere, girare e mandare in onda questa follia?”; e anche mandandomi a quel paese…), invece Beasts e The Stone Tape sono tra i tanti capolavori firmati da Kneale… ma tutte queste opere sono disponibili in DVD… senza sottotitoli. Quindi se parlate e capite benissimo l’inglese, no problem, altrimenti ci sono momenti in cui la visione (e l’ascolto) sono abbastanza sfidanti. Ma è anche ovvio: in Inghilterra pensano “Chi cazzo se la guarda ‘sta roba a parte noi?” (risposta: io e il mio amico, ma non importa).
Invece Edge of Darkness i sottotitoli li ha! Evviva! Ed è riconosciuta come una delle più grandi serie televisive inglesi di tutti i tempi. Girata e recitata da dio. E con una sceneggiatura… non so neanche da dove cominciare. Non sono sicuro di avervi parlato di Troy Kennedy Martin, ma posso dirvi che anche se è morto nel 2009, il suo ultimo film in sala è Ferrari di Michael Mann (non sto scherzando), in una carriera che comprende anche The Italian Job e Red Heat (in Italia Danko). Un sottotesto incestuoso (giuro, se ci sono dubbi, ci sono almeno due scene che indicano che non sono il solito sporcaccione ma Martin era totalmente unleashed), ambientalismo e critica alla guerra nucleare, una storia che parte in modo realistico come poliziesco, passa allo spionaggio e poi vira nel mistico, con prese di posizione così avanzate che si stenta a credere che sia scritto nel 1985. E poi il coraggio di scrivere certe cose (e ribadisco, il fatto che qualcuno abbia detto: “OK, va bene, possiamo girarlo e mandarlo in onda.”…), tipo parlare esplicitamente della Gran Bretagna come di un paese del terzo mondo, scrivere un’opera antigovernativa di denuncia (dimostrazione che negli altri paesi le tv statali funzionano davvero in maniera indipendente e fanno il loro dovere), un quinto episodio che da solo poteva generare un’intera serie e di fatto anticipa Lost… siamo fuori scala da ogni punto di vista. Se vi volete bene, invece di guardarvi l’ultima serie super-hyped da piattaforma, recuperate questo e ripetetevi l’anno in cui è stato fatto e fatevi delle domande. Come me non avrete risposte, ma l’importante è farsele, le domande.
Qualche settimana fa, ho letto sul già menzionato Orbital Operations, questa citazione:
“Vado semplicemente alla mia velocità e capisco che può essere un po' troppo per alcune persone, ma non lo faccio per un secondo fine. Devo semplicemente fare e realizzare, altrimenti divento davvero infelice, depressa e frustrata e non ho modo di comunicare, perché spesso le parole non mi bastano.” (dalla newsletter della musicista Laura Cannell)
Dopo avere citato la Cannell, Ellis osserva: “aspettare il permesso di qualcuno non funziona. A volte bisogna semplicemente sedersi e fare prima che l'idea diventi cenere dentro di noi.
È da un po' di tempo che non è così difficile attirare l'attenzione sulle cose. Ma probabilmente non è mai stato così facile portare l'idea nel mondo là fuori.” [nota: come sempre, mie traduzioni alla buonissima]
E più avanti:
“Forse vi renderete conto che "Devo semplicemente fare e creare". Per alcuni è la pulsione principale della nostra vita. […] Perché quando si porta il proprio lavoro nel mondo, più e più volte, con tutto l'amore possibile, possono accadere e accadranno cose nuove.”
Non so se parlare di amore sia corretto. Potrei parlare di passione, o di ossessione. Potrei parlare di fame, se quello sfruttatore di lavoro sottopagato di Steve Jobs non avesse lasciato una macchia su quella parola con il famoso “Stay hungry, stay foolish”. Forse dovrei parlare di fuoco, quello che fa sì che Joe muoia alla fine di Ashita no Joe, “fino a diventare cenere bianca”. Poco importa.
Parlando con un amico sceneggiatore, e riflettendo sulle vite delle persone che conosciamo, mi sono reso conto che in realtà la norma è NON avere questa fiamma, questo fuoco, questa ossessione. Molte persone fanno un lavoro per guadagnarsi da vivere e trovano soddisfazione altrove. Ed è assolutamente legittimo. Ma è importante allora capire che anche se essere artisti ci rende parti di una sparuta minoranza dell’umanità, non siamo soli.
Alla fine, questa newsletter non è altro che una serie di appunti personali che decido di condividere, per un motivo molto semplice (e banale), e mi scuso per l’intimità della condivisione: nella prima parte della mia carriera pensavo genuinamente di essere un freak sociopatico.
Sindrome dell’impostore, insicurezza costante, impossibilità di spiegare a chi non facesse lo stesso mestiere quello che vivevo (e la scoperta che molte delle persone che lo fanno non si pongono domande a un livello profondo; spoiler: sono anche le persone che non lasciano un segno. Che va benissimo, ma attenzione agli interlocutori con cui vogliamo condividere certe conversazioni): mi sentivo e mi sono sentito, a lungo, terribilmente e disperatamente solo.
Quando finalmente ho cominciato a conoscere persone che non si limitavano a fare ma si interrogavano in modo profondo sulle ragioni del proprio fare, ci fu la scoperta (ingenua finché volete) che solo non ero. Che certe cose non capitavano solo a me, che certi pensieri e certi dubbi laceranti non erano solo miei. Forse l’elenco più grande di “sofferenze condivise” l’ho trovato in “Becoming a writer, staying a writer” di M. J. Straczynski. E quindi a prescindere dal momento del percorso artistico che state compiendo, non ritengo che tutto questo possa esservi utile di per sé. Ma che almeno appunto vi aiuti a ricordare di non essere sol*. Che il bisogno di sintonizzarsi sull’universo e cogliere quel dettaglio che gli altri non vedono non è solo vostro. Siamo pochi, ma ci siamo. Abbracciamoci.
Io gli abbracci li ho cercati e sono stato abbastanza fortunato da trovarli.
Questo è il mio abbraccio virtuale per voi.
Il prossimo gennaio si preannuncia fitto di impegni e scadenze sovrapposte. Non garantisco regolarità delle uscite, ma se non mi faccio vivo io, fatelo voi, che mi fa sempre piacere.
Senza ironia, nel mezzo della crisi del mondo dell’entertainment, di una crisi economica, di una crisi climatica, buon 2024.
Parafrasando alla buona John Rogers, ricordatevi che le persone riuscivano a vivere giornate felici anche durante la caduta dell’impero romano.
p.s. sempre Warren Ellis (che vi devo dire, è un po’ il mio spirito guida) ha scritto le sue intenzioni per il 2024 e cita questo brano da Juxtapoz (solite mie traduzioni grossolane): “Il tuo lavoro migliore verrà sempre dal fatto di seguire il tuo istinto, creando qualcosa che desideri vedere personalmente nel mondo, non ciò che pensi che le altre persone desiderino.”
E aggiunge di suo: “Ciò che spero di fare nel 2024 è questo: eliminare quasi tutte le voci esterne e lavorare con le mie riserve interne. Poca roba in arrivo, poche distrazioni, visione intenzionale di film e lettura di libri e saggi, sfruttando al meglio le ore diurne e allontanandomi dallo schermo quando sono bloccato, per uscire e lavorare con le mani e pensare. Segnale al minimo e messa a fuoco elevata.”
Chiaramente conclude con un “non vedo l'ora di spiegarmi nel giugno 2024 come e perché tutto è andato storto.” Auguri!
p. p. s. dalla newsletter di Pat Mills: “in una regione del Sud Africa, gli abitanti dei villaggi ricoprono le loro capanne con impressionanti dipinti in gesso, bellissimi da vedere. Questi vengono poi spazzati via ogni anno dalle forti piogge. E così ricominciano a dipingere da capo.
In risposta ad un commento sulla perdita di questi meravigliosi murales, un anziano della tribù ha risposto:
“Perché dovremmo preoccuparci dell’arrivo delle piogge quando possiamo creare per sempre?”