Mi imaginación está siempre presente y me sostendrá en su inocencia inatacable hasta el fin de mis días
“Mi imaginación está siempre presente y me sostendrá en su inocencia inatacable hasta el fin de mis días.” Luis Buñuel: Mi último suspiro, Plaza & Janés, 1982, Pág. 171
Questa citazione viene dall’ultima newsletter di Warren Ellis, Orbital Operations. Per non copiarlo paro paro, mi sono permesso di citarla in spagnolo, visto che lo parlo e immagino che l’originale faccia più chic.
Uno scrittore professionista non può trascurare le condizioni del mercato. Non si scrive in una bolla, non puoi pensare di non sapere “cosa succede attorno a te”. La consapevolezza non significa però che questo debba influenzare totalmente la creatività. Se per esempio c’è “una tendenza in corso” e la si vuole seguire, semplicemente si arriverà troppo tardi. E soprattutto, se si vuole creare qualcosa di rilevante, è alla propria sensibilità e capacità di percepire lo zeitgeist che si deve fare riferimento.
Soprattutto, che piaccia o no, il mestiere di scrittore (ma suppongo valga anche per altri lavori creativi, e non solo), è in parte professione e in parte necessità. Se qualcuno mi chiede come si fa a capire se si diventerà scrittori (camparci è un altro discorso), la risposta è “semplicemente non puoi non scrivere.”
Sono concetti che dopo anni (18 dal mio esordio a fumetti e 17 come scrittore di narrativa) risultano ovvi, ma leggere che qualcun altro (più affermato di te) la pensa come te, ogni tanto è confortante.
E questa bella intervista in due parti di Cole Haddon a Ed Brubaker mi ha confortato, in effetti.
Un paio di passaggi in particolare mi hanno fatto sorridere. Questo il primo:
EB: “that’s the main advice I give other writers, is not to wait for someone else to give you permission to write. Because then, it just feels like a job. It’s just technical work. […] But really, if you want to write your own stories, just write them.”
Questa è una delle motivazioni per cui insisto con i/le mie* student* (ma anche con certi colleghi) a padroneggiare più di una forma di scrittura. Cinema, tv, animazione, videogiochi tripla A sono capital-intensive, sono media che paga(va)no bene, ma è molto difficile far partire un progetto in quei campi/a quei livelli. Romanzi, fumetti, audio (podcast o audioserie), videogiochi per cellulari (in certi casi)/avventure grafiche costano molto meno ed è possibile “in qualche modo” (parlo della grandezza dell’editore/produttore e della possibilità di diffusione conseguente) realizzarli.
E sapere scrivere in più media non significa solo più possibilità di lavoro: significa non permettere che qualcun altro ci impedisca di scrivere.
In parte lavoro, in parte necessità.
Brubaker conclude l’intervista così:
“It’s one of the most important things in the world to me. I couldn’t live without it. And I’m sure I’ll be writing until I’m on my deathbed, whether AI has replaced us all or not, I do not give a fuck, this is what I do.”
Scrivere comunque e scrivere a prescindere.
Food for thoughts. Calma interiore data dal fatto che questo bisogno ci sarà sempre, accompagnerà sempre, a prescindere da tutto.
Letture (libri):
Da Thin Ice, newsletter dello sceneggiatore Christopher Derrick, ho scoperto dell’esistenza di questo libro che non ho resistito ad acquistare subito:
Running the Show: Television from the Inside di Jeff Melvoin (Applause ← è l’editore, non una mia richiesta nei vostri confronti) è probabilmente il libro più utile che ho letto sullo showrunning.
Se il documentario (ma esiste anche sotto forma di libro, che trascrive sostanzialmente le interviste) Showrunners ha avuto per me un interesse che derivava da informazioni importanti e pratiche su questo specifico ruolo inframezzate ad aneddoti personali (che davano comunque un’idea molto precisa del peso che questo lavoro comporti per chi lo fa: nessun* dell/degl* intervistat* pare felice), ma che dopo 9 anni dall’uscita è molto datato (di fatto è l’ultima testimonianza di una peak tv sana, cioè pre-streaming), il testo di Melvoin (che ha un curriculum di tutto rispetto) racconta -anche in questo caso- esperienze personali, ma arriva rapidamente al nitty-gritty, e in maniera concisa e a volte probabilmente fastidiosa per gli/le aspirant* sceneggiator*/showrunner, dà una serie di consigli spesso brutali su come approcciare diversi aspetti professionali, dall’esordio alla “lavorazione” in diretta di una serie. Per dire: è l’unico libro in cui ho visto finalmente un esempio di budget di produzione di un episodio televisivo (perché sì, aspiranti showrunner italiani, avere anche da noi questa figura è sacrosanto, ma bisogna imparare nozioni di produzione per poterlo fare).
Lo consiglio (lo so, consiglio pure troppe letture) e penso che addirittura diventerà uno dei testi fissi che indico quando qualcuno che non può frequentare corsi specifici per vari motivi mi chiede di poter “imparare a sceneggiare” - o quantomeno capirne di sceneggiatura in modo approfondito, dal più piccolo mattoncino di storytelling all’edificio generale - dalla A alla Z, passando per la S di serialità
(per i curiosi, la lista è:
- Beat by beat, Franco Fraternale
- Come scrivere una grande sceneggiatura, Linda Seger
- Scrivere le grandi serie TV, Pamela Douglas [datato, ma senza quel pezzo “datato” non si capisce perché certe cose oggi funzionano così]
- Showrunner : grandi storie, grandi serie, Neil Landau
Tutti questi titoli sono pubblicati da Audino Editore - che non mi dà nessuna percentuale per questi consigli, sono titoli validi e basta; del resto nel catalogo dell’editore ci sono anche volumi che considero a dir poco discutibili.).
Letture on line:
Non c’entra nulla con quello di cui ho scritto finora, ma questo strepitoso pezzo sulla storia dei costumi degli X-Men tra moda e fumetto del mio amico Marco è strepitoso, e mi pare anche in questo caso una lettura utile per chi sceneggia (in occidente: i mangaka invece sono quasi sempre sul pezzo) che troppo spesso affrontano troppo sbrigativamente il discorso dell’apparato visivo (ma si dovrebbe aspirare all’iconico, non solo al “visivo”) dei proprio personaggi.
Oggi newsletter breve. Quando voi la riceverete, salvo disastri apocalittici, dovrei essere ospite a Capri Comics assieme al compare Massimo Dall’Oglio.
Max sta lavorando al suo primo manga per Kodansha, che verrà serializzato su Monthly Afternoon. Si firmerà “Hagane”, ovvero “Acciaio”.
Come mai?
Perché quando fummo tra i vincitori del Silent Manga Audition, per vari motivi decidemmo di partecipare con uno pseudonimo, “Hagane Ishii” (cioè “volontà d’acciaio”. Proprio uno pseudonimo da shonen manga, vero? Che scemi) Anzi, con uno pseudonimo che potesse far pensare che fossimo un autore unico, proprio come Ashirogi Muto è lo pseudonimo dei due autori, Moritaka Mashiro e Akito Takagi, protagonisti di Bakuman (inutile dire che vi consiglio la lettura anche di questo: nonostante le esagerazioni tipiche dei manga per questo target, penso di non avere mai visto un fumetto così utile nell’analisi e nella progettazione di un progetto seriale pop). La vita come uno shonen manga.
Ho chiesto a Max il motivo della sua scelta. E la sua risposta è stata: “Su questo manga lavoro con un altro sceneggiatore, quindi mi firmo solo Hagane. Ma quando io e te faremo un manga assieme, torneremo a essere Hagane Ishii.”
Non “se”. “Quando.”
Essere un autore, vivere di creatività, significa anche questo: non solo immaginare nuove storie, ma immaginarsi come autore di quelle storie, che non è la stessa cosa. Un desiderio e una spinta a “fare” puri e ingenui.
In parte lavoro, in parte necessità.
La nostra immaginazione continua a esistere e, nella sua inattaccabile innocenza, continuerà a sostenerci fino all’ultimo respiro.