Rejection, failure and adversity
Oggi è domenica, qui è una giornata grigia e piovosa, e onestamente non ho voglia di fare nulla, men che meno di scrivere una newsletter.
Forse è il cattivo umore che mi ha fatto scrivere un rant rivolto a nessuno in particolare se non a me stesso. Quindi, se proseguite, immaginate che io stia parlando da solo e voi siate degli spettatori incuriositi verso un essere senziente alieno, alla Slaughterhouse-Five.
Se mi conoscete, sapete che in questo ultimo anno ho consigliato più o meno a chiunque il podcast “Screaming into the Hollywood Abyss”. Sostanzialmente questo podcast l’anno scorso mi ha tenuto su in un periodo particolarmente buio (uno dei tanti dal 2011 a oggi) ma mi ha fatto finalmente riflettere in modo organico sul concetto di fallimento e su come gestire emotivamente il fatto che un progetto venga rifiutato.
Nonostante alcuni consigli dati dai vari sceneggiatori ospiti del podcast siano utilissimi (in certi casi molto pratici, vedi il finale dell’episodio 21 con Bryan Hill), dopo avere ascoltato quasi la totalità degli oltre 70 episodi, mi viene da dire che sicuramente noi autori frigniamo troppo. “Eh, è un lavoro duro”, “Mi ci sono voluti anni per riprendermi”. Uhm… se hai il cancro, è una brutta situazione. Non se ti rifiutano un progetto.
”Ma mettiamo così tanto di noi stessi in un progetto…”
E quindi? Pensiamo che questa cosa non accada in altri lavori? Soprattutto: è possibile ipotizzare un qualsiasi tipo di lavoro creativo in cui NON metti tanto di te stesso in un progetto? Quella è la conditio sine qua non, ma non può diventare una scusa per sdilinquirsi in menate su quanto sia duro il lavoro creativo.
Tolto qualsiasi discorso da “sindrome dell’impostore” (e lì, se non te la togli, usa l’analisi, o tienitela e continua a lavorare), il nostro lavoro è inventare storie che qualcuno con denaro sufficiente a farcele realizzare pensa possano procurargli ancora più denaro - e quindi farci dare quel denaro per realizzarle.
Un rifiuto significa semplicemente che quello specifico progetto in quello specifico momento non sembrava “la cosa” che avrebbe potuto permettere a quelle specifiche persone con il denaro che ci serviva a realizzarlo… a fare più denaro.
Fine.
Non siamo i nostri lavori. Il lavoro ci rappresenta, ma non siamo “noi”. Anche se ci abbiamo messo tanto di noi, il rifiuto non è riferito a noi come “persone”: è una piccola parte di quello che abbiamo fatto e che sappiamo fare.
“Eh, ma quanti progetti hai scritto e non si sono realizzati?”
Moltissimi. Però, come dire, è la natura del business. E infatti si chiama show business, non show art. Stiamo parlando di denaro (vedi sopra). Il punto di contatto tra “noi” e “loro” è quanto il prodotto sia rilevante, ma ovviamente per chi crea e per chi produce lo è per motivi diversi:
- per chi crea, significa far arrivare una storia al maggior numero possibile di persone, e presumibilmente interessarle, intrattenerle, farle ragionare su qualcosa che considerano importante in quel particolare momento storico;
- per chi produce, significare far arrivare il prodotto al maggior numero possibile di persone e farci più soldi possibile.
Diversi intenti, ma l’obiettivo è il medesimo.
Mi viene anche da riflettere su quello che diceva Kobe Bryant, che rifiutava il concetto stesso di fallimento. L’unico modo in cui un fallimento è tale è solo se non progredisci da quel fallimento: perché se avrai imparato qualcosa, non sarà più tale. E siamo definiti, e siamo quel che siamo, anche per la somma dei nostri fallimenti e cosa abbiamo appreso da essi.
Questa è la natura del business, dicevo. E se la tentazione, dopo l’ennesimo rifiuto, è di mollare, bisogna farsi la hard question: scrivere (o qualsiasi sia l’attività creativa che pratichiamo) è la cosa che mi piace fare di più al mondo? Se la risposta è sì, troverai in te la motivazione per perseverare. Se la risposta è no, fai qualsiasi altra cosa, perché il mondo della creatività è l’unico dove il fallimento non è solo frequente, ma è la norma.
Perseverare. Non c’è altro. Mi è successo tantissime volte di pensare che volevo mollare e smettere di scrivere. Inevitabilmente, mentre ero sotto la doccia, mentre la testa vagava, in testa si formava una storia. E pensavo che avrei voluto articolarla, approfondirla, scriverla, insomma. Non c’era via di scampo. Ho provato a scappare, ma mi piace inventare storie. Non riesco a farci niente, è più forte di me. Ho ceduto e accettato che è questo che sono e che voglio fare e che mi piace fare, anche se non sono ancora il professionista che vorrei essere.
Per fare un esempio: nel 2021 ero seriamente tentato di mollare (per l’ennesima volta, dopo la mia prima pesantissima crisi creativa del 2011). Avrei potuto. Poi mi sono detto: prova ancora un altro anno.
E l’anno scorso il 31 maggio è arrivata la telefonata in cui mi veniva chiesto di scrivere Nathan Never/Justice League. Se avessi smesso, questa opportunità non sarebbe arrivata. Avrei rifiutato, avrei detto di farlo scrivere a qualcun altro, perché nella testa avrei avuto solo un enorme “Basta” (anzi, in inglese: “Enough of this shit”).
E quindi non c’è altro da fare. Non si resiste come un Super Saiyan, con l’alone di energia attorno, ma è più un resistere pieni di danni emotivi che in qualche modo decidi di gestire, mentre ti dici: “Un altro tentativo. Un altro ancora. Non ho le forze, ma un altro ancora.”
Come diceva il mio amico Stefano Di Marino: “La differenza tra un dilettante e un professionista è che il professionista è un dilettante che non ha mollato.” Non saprei come sintetizzare meglio.
Stefano, tuttavia, dopo avere scritto oltre 200 libri in 26 anni di carriera, si è suicidato. Aveva 60 anni.
Il che mi porta a un altro argomento fondamentale.
Bisogna imparare a festeggiare. A gioire dei grandi ma anche dei piccoli risultati.
Quando ho vinto il premio come miglior corto di fantascienza al Reykjavik Independent Film Festival con “Talking to Control”, un produttore con cui lavoro mi ha fatto i complimenti. Io ho ribattuto che era un piccolo festival e non era niente di che, come premio. Lui mi ha detto: “Il nostro è un settore così avaro di soddisfazioni che qualsiasi buona notizia va festeggiata.”
Ecco, lì ho imparato una lezione importante, che è appunto: festeggiare, essere felici, avere dei momenti in cui gridi come un idiota perché hai fatto uno step in avanti, anche se piccolo. Se non punteggiamo il nostro percorso di questi momenti, anche psicologicamente rischiamo di dimenticarsi perché lo facciamo, e che lo facciamo perché - secondo noi - è banalmente bello farlo. Certo, è ovvio che il premio è l’attività in sé, è il momento in cui la pratichi che dà la gioia più grande (o dovrebbe essere così, almeno), ma… concediamoci dei momenti in cui essere felici per qualsiasi risultato a cui noi decidiamo di dare importanza. Se aspettiamo il momento perfetto per stappare quella bottiglia di champagne (io sono astemio, ma non conta, è una metafora), non faremo nient’altro che lasciar scorrere tutta la nostra vita senza un momento di celebrazione e con una bottiglia di champagne molto vecchia nel frigo.
Personalmente ho lavorato molto sull’accettazione del rifiuto, meno sulla capacità di essere felice per i risultati che ho raggiunto.
Alla prossima Lucca escono in anteprima sia Mr. Evidence 1 che appunto Nathan Never/Justice League. Sono progetti di cui sono soddisfatto (e Mr. Evidence non è neanche finito), ma mentalmente sono già oltre, sono già dopo. Più che l’inizio di qualcosa, questa doppia uscita è il finale di un’ipotetica “Phase 1” della mia carriera iniziata nel 2005 con la mia prima pubblicazione su Strike della Star Comics. Insomma, mentalmente il mio atteggiamento è “Sì, ok, what’s next?”.
Ma…
…è l’atteggiamento sbagliato.
Quindi a questa Lucca Comics and Games 2022 ho deciso che in qualche modo sarò contento di quello che ho realizzato. Un team up Bonelli/DC, primo italiano ad aver scritto la JL (e in particolare, che io sappia, primo italiano ad avere scritto una storia di Superman) e una mia miniserie per il più grande editore italiano. Dovrei sforzarmi di pensare almeno che non è male, come risultato. Se passate allo stand Bonelli, mi vedrete sorridere. O almeno provarci.
Spero che il risultato non sarà inquietante.