Ciao. Questa newsletter parte presa bene e poi prosegue presa male, poi finisce dubbiosa, quindi un mix tra la riflessione creativa libera e il mio realismo spietato spesso preso per pessimismo. E anche forse la conferma che non dovremmo mai tentare di analizzare il presente in diretta e che ogni tentativo di previsione sia tutto sommato vano, e si riduca a gioco intellettuale. In fondo del futuro non sappiamo niente e del presente capiamo poco o molto poco.
Cosa fu il Grunge? Un ritorno alle origini del rock mescolato in maniera agnostica col punk in un ambiente musicalmente “isolato” come fu la Seattle degli anni ‘80, lontano dalle tendenze “hair metal” che dominavano tra la metà e la fine degli ‘80.
Grunge: il rock dalle strade di Seattle di Claudio Todesco (sempre di Tsunami Edizioni) è un viaggio alla scoperta delle radici di un sound che infiammò il mondo tra il 1991 e il 1994, di un humus culturale e urbano irripetibile, e una considerazione di come a volte la mancanza di contatti con i trend del momento porti a reinvenzioni che poi diventano la nuova ondata di qualcosa che si è evoluto in altre direzioni.
Chiaramente la situazione fu -ribadiamo- irripetibile: un movimento all’inizio molto grassroots, che si diffuse tramite ogni canale alternativo possibile all’epoca (tra cui radio locali e fanzine con musicassette allegate: riuscite a immaginare oggi qualcosa del genere?), animato da uno spirito DYI che contrastava in maniera frontale le major, le industries di New York e L.A. e si opponeva già a Rolling Stone considerandolo troppo mainstream (ironico che i video su MTV furono uno dei mezzi con cui il grunge si diffuse maggiormente a livello globale). Qualcosa che oggi, col rumore di fondo generato dai social media, è letteralmente impensabile.
[ed è interessante pensare che forse abbiamo festeggiato troppo prematuramente la morte del mainstream: quando c’è un unico discorso culturale di massa, affermarsi come alternativa - che comunque quando “cresce” a sufficienza poi viene inglobata nel mainstream stesso - è più facile, rispetto alla frammentazione in micro-nicchie che è diventato oggi il panorama in cui sostanzialmente l’eccesso di offerta rende tutto irrilevante, soprattutto se si aggiunge anche la FOMO].
Questo in qualche modo mi riporta alla riflessione che feci tempo fa, relativa al fatto che mai come in questo periodo storico di appiattimento creativo (incluso il concetto che la narrazione in tre atti basata sul viaggio dell’eroe stia cominciando a creare un’uniformità eccessiva in cinema e tv, non solo a Hollywood), sia forse necessario da narratori, trasformarsi in archeologi della cultura pop e andare a scovare non dico delle gemme (altrimenti valore e influenza sarebbero già riconosciute), ma comunque “pezzi” dimenticati di narrativa, fumetto, cinema e serialità televisiva , che non hanno aperto strade, che non hanno donato il loro DNA all’evoluzione dello storytelling.
E invece forse è ora di percorrere quelle strade. Potrebbero essere vicoli ciechi, forse no. E sicuramente portare queste idee “devianti” a un pubblico più ampio sarà “la” sfida.
E se colleghiamo i tre argomenti… nella scorsa puntata si parlava delle relazioni tra musica e fumetto: non trovo la citazione, ma sono abbastanza certo che Rob Liefeld parlasse della nascita dell’Image come del corrispettivo a fumetti del grunge. Per quanto se consideriamo il senso di sconfitta, di perdita, di malinconia e di tristezza di quella musica, non potrebbe esserci niente di più lontano dalle esplosioni colorate delle tavole degli albi Image (in questo articolo sul numero 1 di X-Men, il fumetto più venduto della storia dei comics, ci sono interessanti estratti da interviste a Jim Lee e alla sua idea di disegno e di character design e di storytelling che “deve essere cool prima di tutto il resto”, discorso che può valere serenamente almeno per McFarlane, Liefeld e Silvestri), probabilmente vero è che ne furono il naturale complemento, cioè un riflesso di uno spirito solare e cazzone che si accompagnava alla depressione di noi slacker. Lo zeitgeist degli inizi dei ‘90 tra questi due poli in forte contrasto può essere considerato quindi come uno degli ultimi momenti seminali della cultura pop (se qualcuno mi dice -ad esempio- che il cinema Mumblecore sia stato rilevante, rispettosamente dissento).
E per puro caso, avendo visto questo documentario su Quentin Tarantino su Prime, in cui una critica intervistata dice che la rilevanza del regista nato a Knoxville è legata soprattutto ai 90 (si può essere d’accordo o meno), mi rendo conto che Tarantino ha innovato esattamente nel modo in cui suggerivo: attingendo a piene mani da fonti diversissime, ha fondato un “proprio” modo di fare cinema, sicuramente non replicabile, ma che resta come esempio di un approccio possibile. Quando parlo di “fonti diversissime”, ricordiamo che alcune delle fonti di ispirazione del regista sono serenamente accettate e accettabili dalla critica ufficiale, come i film noir e la Nouvelle Vague; i riferimenti anche all’action giapponese (della Nikkatsu ma non solo), i film di kung-fu, il cinema di genere italiano e la blaxploitation molto meno (infatti ricordo l’assoluta incapacità della critica dell’epoca di valutare Kill Bill).
Tarantino ha “scoperchiato” dei tesori nascosti (senza contare che ha riportato in auge attori e attrici ormai fuori dai radar hollywoodiani) e ha portato alle platee mondiali qualcosa di mai visto prima (ricordiamolo, perché aveva qualcosa da dire: come dico sempre, non è che basta mescolare La mariée était en noir di Truffaut e Shurayuki-hime di Fujita per ottenere appunto Kill Bill), addirittura portando come conseguenza a una rivalutazione critica di un cinema dimenticato (per quanto riguarda il cinema bis italiano, avvenuta sostanzialmente grazie a lui e a opera di una singola rivista, cioè Nocturno).
Questo approccio “basterà”? Il ragionamento avrebbe potuto proseguire, ma si è frenato bruscamente dopo la lettura di questo articolo inviatomi dal mio amico Alberto, che pone una questione fondamentale: “Non dobbiamo chiederci se la macchina possa sostituire l’artista, dobbiamo chiederci quanto teniamo all’artista.” Perché se guardiamo all’utilizzo dell’AI generativa in musica, scopriremo che è un processo che di fatto è già in atto da tempo. E questo non procura nessun fastidio o disturbo all’utenza. Il tipo di ascolto che è legato sempre più al mood dell’utente e non all’identità del musicista, ha fatto sì che sia stata inventa un’AI generativa che crea versioni diverse dello stesso brano (si presume dietro pagamento di diritti d’autore per ogni versione, ma mi piacerebbe vedere gli assegni) per diversi “soundscape” che poi, “caratterizzati” in modo specifico, l’algoritmo infila nelle playlist, che sono diventate il metodo preferito di ascolto della maggior parte degli utenti (infatti oggi gli ascoltatori non fruiscono “artisti”, ma appunto “playlist”).
E questa capacità generativa -ripeto, già in atto- rende la musica (come fa notare l’autore dell’articolo) tendente sempre di più alla fan fiction (o alla fan music). Si vuole sempre più “contenuto” (è chiaro che stiamo parlando di business, ma quanto detesto questo termine…) e sempre più personalizzato. L’ipotesi del “film o telefilm su misura” prospettato per cinema e TV si fa sempre più vicina.
Quindi: quanto teniamo all’artista? Quanto teniamo agli sceneggiatori e agli attori in sciopero? Potremmo scoprire amaramente - e l’esempio della musica ricavata da AI generativa è già qui a confermarlo - che la rilevanza dell’artista è solo un problema degli artisti. Ma non del pubblico.
Mentre rimuginavo fosco su questo concetto, ecco che Bill Willingham spara la bomba e decide di rendere “Fables” di dominio pubblico.
Long story short: Warner/DC Comics ogni volta che gli deve del denaro 1) tenta di non pagarlo, 2) tenta di pagarlo meno di quel che gli è dovuto e 3) tenta di fargli firmare clausole che rendano l’IP totalmente di proprietà della casa editrice, e Willingham è sempre stato molto attento a non cascare in queste trappole legali.
Evidentemente persa la pazienza, e capito che una causa legale contro DC sarebbe stata 1) lunga, 2) economicamente per lui disastrosa e 3) persa in partenza, ha deciso di fare questa mossa. Può farlo? Non può? Si sarà consultato con un avvocato? Intanto DC ha lanciato un comunicato stampa (cosa rarissima) in cui dice che Fables NON è nel public domain.
Ho già letto commenti del tenore “Visto? Non è servito a nulla!”, ma in realtà… che il contenzioso si risolva o meno, Willingham secondo me ha già ottenuto quel che voleva. Adesso Fables è un’IP che scotta. Davvero qualcuno si metterebbe a trarne videogiochi o serie tv, sapendo che c’è questa “questione aperta”? Meglio rivolgersi ad altre IP. Willingham voleva semplicemente far diminuire il valore della property per DC, e ci è riuscito. “I’ve decided to take a different approach, and fight them in a different arena, inspired by the principles of asymmetric warfare.”
Non possiamo smettere di essere creativi e di pensare a quello che scriveremo e come lo scriveremo e che approccio avremo nello scriverlo, non sappiamo se siamo importanti per il pubblico quanto è importante per noi quello che facciamo per il pubblico, e non possiamo neanche scordarci di essere in guerra, in questo momento di tardo-turbocapitalismo, in cui studiare principi di guerra asimmetrica forse diventerà parte della job description di un creativo, chi lo sa.
Del presente capiamo molto poco, del futuro non sappiamo nulla.
Gran bel pezzo. Disclaimer: non dell’Ubalda.
Porca paletta, un post con Youngblood come immagine di copertina me lo vorrei leggere subitissimo ma sono in una call di lavoro (pure di domenica, ahimè). Rimedio nel pomeriggio ma mi piace già il fatto che abbiamo entrambi usato la parola roller coaster nei nostri post. XD