Recentemente tre cover per la DC Comics sono state ritirate perché apparentemente (ma pare quasi certo) realizzate con l’AI.
Ovviamente DC lo ha fatto perché la “temperatura nella stanza” nel mondo del fumetto è “No AI-Generated Art!”, non perché condivida a livello etico la questione. Aggiungo che data la confusione sul copyright di prodotti AI-generated e a causa della momentanea mancanza di leggi al riguardo (in USA mi risulta che nessun prodotto AI-generated possa avere il copyright, correggetemi se sbaglio), visto che la casa editrice detiene il 100% dei diritti dei propri prodotti per qualsiasi tipo di sfruttamento, questo potrebbe creare dei problemi in quanto il copyright claim non si potrebbe applicare.
E fin qui niente di strano, business as usual.
Io vorrei portare la riflessione su altro.
Ovvero che nel surreale caso in cui nessuno si fosse accorto che quelle cover fossero AI-generated… sarebbero purtroppo state cover accettabilissime, nel panorama fumettistico attuale: ho visto numerosissimi esempi di digital art avere quell’aspetto asettico, freddo e inespressivo.
Ovvero: un certo tipo di prodotto seriale, che sia a fumetti o audiovideo, è diventato così standardizzato, che tolta la questione etica, a un disegnatore è venuto in mente che fare un prodotto con le AI tutto sommato “potesse essere accettabile”: perché tanto “andrà bene” e comunque visti i pagamenti e la totale mancanza di diritti residui… perché sbattersi?
Sono prontissimo a prendermi i vaffanculo e sentirmi dire che “non è la stessa cosa”, ma quanti disegnatori tracciano due righe e poi ci danno dentro con texture pre-impostate di Photoshop e/o elementi grafici già presenti in Clip Studio? Quanti calcano pedissequamente Poser o modelli generati in 3D aggiungendo ben poco al disegno finale oltre questo ricalco?
Attenzione: non sto giustificando né condannando nessuno. Sto solo cercando di capire e mi so solo facendo domande. Posso già immaginare molti disegnatori che dicono: ma coi pagamenti che non aumentano/sempre più bassi, e coi tempi di realizzazione che vengono dati, è inevitabile. E infatti non dico di no. Questa è la triste realtà. Il lavoro di disegnatore di fumetti (ma è solo un esempio, e la casistica si può ampliare) è sempre peggio pagato e quel che resta dopo il lavoro (chiamiamoli “residuals” per capirci) è sempre più prossimo allo zero (provate a chiedere a Marvel e DC i compensi per la creazione di nuovi personaggi e il loro sfruttamento multimediale o a quanto pagano per le edizioni in volume, quando esistono. Vi ricordo questo articolo. Oppure vi ricordo che “Bodies” della DC - da cui è stata tratta la serie tv Netflix— non è stato più disponibile - neanche in digitale - dopo la prima raccolta in paperback, finché la serie non ha avuto successo. Solo dopo è uscito di nuovo in volume. Cioè per anni il titolo è stato introvabile. Sparito.).
Se come professionisti e creativi si viene messi nella condizione di creare lavoro usa e getta, perché bisognerebbe avere un atteggiamento diverso dall’ “una roba fatta in AI andrà bene”? Io ho la mia risposta al perché NON mi va bene, ma so che è personale, e potrebbe non essere condivisa. L’uso dell’AI mi sembra non l’unico, ma tristemente uno dei passi successivi di questo adeguamento al posizionamento di alcune case editrici. Non entro neanche nel merito del fatto che le piattaforme critichino i loro prodotti “eccessivamente complessi” perché non sono “second screen enough”. Se non sapete di cosa parlo, ecco qui:
"I’ve heard from showrunners who are given notes from the streamers that “This isn’t second screen enough.” Meaning, the viewer’s primary screen is their phone and the laptop and they don’t want anything on your show to distract them from their primary screen because if they get distracted, they might look up, be confused, and go turn it off. I heard somebody use this term before: they want a “visual muzak.” When showrunners are getting notes like that, are they able to do their best work? No. And when these companies control the entire pipeline from beginning to end, then you wind up doing what they ask.” [Ho sentito dire da showrunner che hanno ricevuto note dagli streamer relative al fatto che la loro serie "Non è abbastanza secondo schermo". In altre parole, lo schermo principale dello spettatore sono il telefono e il computer portatile e non vogliono che qualcosa nel programma li distragga dallo schermo principale perché se si distraggono potrebbero alzare lo sguardo, confondersi e spegnere. Ho già sentito qualcuno usare questo termine: vogliono una "musica di sottofondo visiva". Quando gli showrunner ricevono note di questo tipo, sono in grado di fare il loro lavoro migliore? No. E quando queste aziende controllano l'intera pipeline dall'inizio alla fine, si finisce per fare quello che chiedono.”]
Posto che la mia posizione sulle AI è stata riassunta dal giornalista Francesco d’Isa (con cui concordo su alcune cose, tipo questa che segue, meno o forse per nulla sul fare AI-Art): “dati aperti a chiunque per il training, obbligo di open source, trasparenza nel dataset, tasse aggiuntive per le tech che usano un bene comune a scopo di lucro e sforzo di AI pubbliche” (i grassetti sono miei) a cui aggiungo ovviamente la necessità di una legislazione (quindi ben vanga l’AI-Act!) che regolamenti non la tecnologia ma i suoi usi (cosa che dovrebbe preservarla dall’obsolescenza, come mi ha fatto notare Alberto Puliafito nell’intervista che gli ho fatto per Fumo di China), il punto è un po’ lo stesso degli articoli clickbait pagati 5 o 3 euro: il problema è che adesso le redazioni li fanno scrivere alle AI, o il problema è che innanzitutto non dovrebbe essere etico che si chieda di scrivere articoli a questo prezzo, che è scandaloso di per sé nell’ottica di una giusta retribuzione del lavoro?
E torniamo al punto: stiamo accettando di creare prodotti talmente standardizzati per mangiare che siamo inevitabilmente complici della futura (parziale o meno) sostituzione di prodotti di intrattenimento con prodotti creati in serie da “stealing/copying/mixing softwares”? Questa è la domanda.
Come dice il sempre brillante Cole Haddon commentando le recensioni a Civil War di Alex Garland è in corso “a cultural shift away from art that challenges us in any way, but especially cinema that does this. We don’t want to think anymore - God forbid, that sounds so hard. Film should instead just give us warm and fuzzy feelings — the opium that is nostalgia […] — or, perhaps worse, validate our already deeply held beliefs regardless of how toxic these might be.
Which suggests cinema’s purpose is now to make us feel better about ourselves and our identities (not dissimilar to how we want our news media and social media).” [un allontanamento culturale dall'arte che ci sfida in qualsiasi modo, ma soprattutto dal cinema che lo fa. Non vogliamo più pensare - Dio non voglia, sembra così difficile. Il cinema dovrebbe invece darci solo sensazioni calde e confuse - l'oppio che è la nostalgia [...] - o, forse peggio, convalidare le nostre convinzioni già profondamente radicate, indipendentemente da quanto queste possano essere tossiche.
Il che suggerisce che lo scopo del cinema è ora quello di farci sentire meglio con noi stessi e con la nostra identità (in modo non dissimile da come vogliamo i nostri media e i social network].
A questo aggiungo che come dice Mike Gioia “a flood of civilian-generated video is added to the menu at the rate of 700,000 hours of new content every day. That’s 80 years worth of video a day.” [una marea di video generati da utenti non professionisti viene prodotta al ritmo di 700.000 ore di nuovi contenuti ogni giorno. Vale a dire 80 anni di video al giorno.]
Ogni giorno viene prodotto il corrispettivo di 80 anni di video. Possiamo perderci in cagate sui social media per diverse reincarnazioni. Per molti utenti questo è già più interessante che guardare una serie tv o leggere un fumetto. E quando leggono un fumetto o guardano una serie tv o leggono un romanzo… siamo di fronte a uno shift culturale per cui i prodotti di intrattenimento non si desiderano più “challenging” ma come “comfort”? Visto il successo della comfort literature, potrei già darmi una risposta. Ma non mi piace, e quindi mi faccio un’altra domanda ancora: forse il nostro dovere di autori è creare esattamente l’opposto di queste porcate standardizzate, e creare cose che siano più uniche e meno standardizzate possibile?
Se la risposta fosse sì, ci si dovrebbe chiedere giustamente: tramite quali canali distribuirle e come pensare a un “giusto compenso”?
Un altro shift enorme è in corso, e lo si vede se si analizzano i media (giornali in particolare). Ma mi porrò queste domande prossimamente, e anche se alcune risposte avranno conseguenze poco simpatiche e molto faticose, saranno meglio che mollare la spugna e dichiarare la propria inutilità.
Scusate antipatia e cattivo umore. E se mi volete citare, non fatelo fuori dal contesto, questo non è un articolo di cui pubblicare l’estrattino e ciao. Che essere crocifissi on line è un attimo.
Alla prossima.
Dai uno dei miei prossimi libri è un ragionamento passivo/aggressivo sulla morte...
Densissima, e mi hai toccato nervi su tantissime sfumature del tema.
Mi prendo del tempo per rileggere, e commentare meglio.