AI, and the role of creative people (2 di 2)
Note to self: MAI promettere un articolo in due parti
Ciao, ho incautamente promesso una seconda parte a questa riflessione su AI e creatività. Andrò di grana molto grossa per provare a dare una quantità credo molto alta di informazioni in un numero di battute sensato, ma temo già che questo diventerà un TL;DR (per altro pieno di refusi). Pazienza. Partiamo.
Allora. Se le storie, l’arte e la musica sono sempre state una necessità delle società umane organizzate (avevo detto che la prendevo larga?), il modello economico della sopravvivenza del creativo per parecchi secoli si è configurato come commissione (vedi artisti medievali e rinascimentali occupati a rappresentare solo immagini sacre; magari Michelangelo avrebbe voluto fare altro, che ne sappiamo) o come mecenatismo.
La diffusione di libri era molto limitata prima dell’invenzione della stampa, e anche con la stampa si è dovuti arrivare comunque alla nascita della borghesia per avere il romanzo (che nasce come forma letteraria della nascente classe sociale in opposizione alla poesia, tipica forma letteraria fruita dall’aristocrazia). Alcuni romanzi (non tutti) cominciarono a vendere molto, ma non sempre gli autori furono tutelati in caso di successo di vendita: Charles Dickens fu costretto a fare un giro di conferenze negli USA perché non riceveva i diritti d’autore dai suoi libri; non devo ricordare le vite misere di autori come Emilio Salgari, che faceva la fame mentre i suoi libri arricchivano gli editori; o le difficoltà economiche degli scrittori pulp che tanto amiamo e glorifichiamo oggi ma condussero esistenze di merda (mi viene in mente Lovecraft, ma la lista è lunga). I fumetti? Cultura pop (e popolarisima) a prezzo stracciato dagli anni ‘20 ai ‘40 e successivamente nei ‘60 (in USA) e dai ‘40 agli ‘80 (in Italia e Giappone); poi, dai ‘70 negli USA e dai ‘90 in Italia e in Giappone è stata la storia di un medium “che sta morendo”.
E oggi?
- Parliamo di romanzi: “on 58,000 titles published in a year […] 90% of them sold fewer than 2,000 copies and 50% sold less than a dozen copies. [...] 85% of the books with advances of $250,000 and up never earn out their advance.” [su 58.000 titoli pubblicati in un anno [...] il 90% ha venduto meno di 2.000 copie e il 50% meno di una dozzina. [...] l'85% dei libri con anticipi a partire da 250.000 dollari non si è mai riguadagnato l'anticipo.]
Sono dati del mercato librario statunitense. Questo per dire che quando si parla di quanto vendono i Premi Strega (5 titoli su 12 sotto le mille copie, uno poco sopra le mille), non stiamo parlando di “un’eccezione italiana”. I libri non vendono. Gli scrittori campano davvero del proprio lavoro? Pochissimi.
- Parliamo di Hollywood, il più grande mercato al mondo di cinema e tv (nel senso che se sono messi così negli USA, figuratevi il resto del pianeta), con questo articolo che è un longform che non posso sintetizzare, ma di cui consiglio la lettura integrale dato che è un’efficace cronaca della storia di Hollywood e dei diritti degli autori dagli albori ad oggi: “in 2009, across cable, broadcast, and streaming, 189 original scripted shows aired or released new episodes; in 2016, that number was 496. In 2022, it was 849.
The need for writers was enormous. But thanks in part to the cultural success of the new era, supply soon overshot demand. For those who beat out the competition, the work became much less steady than it had been in the pre-streaming era.” [Nel 2009, tra televisione via cavo, broadcast e streaming, sono andate in onda o hanno tramesso nuovi episodi 189 serie tv originali; nel 2016, quel numero era 496. Nel 2022, era 849. Il bisogno di scrittori era enorme. Ma grazie anche al successo culturale della nuova era, l'offerta ha presto superato la domanda. Per coloro che hanno sbaragliato la concorrenza, il lavoro è diventato molto meno costante rispetto all'era pre-streaming. (grassetti miei)]
Prima dello sciopero parlavo del punto che mi pareva sfuggisse alla WGA e vedo che osservatori ben più quotati di me come Robert Bernocchi mi danno ragione: “si dimenticavano i tanti professionisti entrati nel Mercato in questi anni: cosa sarebbe successo per la loro carriera se poi il volume di produzioni si fosse ridotto, come è effettivamente avvenuto?”
Articoli come questi mi spezzano il cuore (o come questi che mi fanno solo scuotere tristemente la testa) ma non capire che c’è stata una bolla che si sta sgonfiando rapidamente, cioè non capire i movimenti e le evoluzioni della realtà che ci sta attorno, mi pare ancora più drammatico.
E comunque se i lavori disponibili sono diventati roba tipo Unfrosted, il film di Seinfeld sulla creazione delle Pop-Tarts (Seinfeld in contemporanea è protagonista di una pubblicità delle Pop-Tarts: quanti soldi, eh?), allora condivido quanto dice l’autore dell’articolo: “Executives greenlight stories about executives. Creatives who built their fortunes off franchise sequels and brand sponsorships lack a healthy shame impulse to refuse corporate fanfiction.” [“I dirigenti fanno andare in produzione storie su dirigenti. Ai creativi che hanno costruito le loro fortune grazie a sequel di franchise e sponsorizzazioni di marchi manca un sano impulso di vergogna per rifiutare le fanfiction aziendali.”]. La sintesi potrebbe essere “Non lamentiamoci perché ce la siamo cercata” (frase che ho sentito dire anche a proposito del mondo dell’advertising da una mia amica copywriter freelance che è stata direttrice creativa), ma non banalizziamo e proseguiamo.
- Parliamo di fumetti. Anzi, lascio parlare Coleen Doran, che senz’altro ha più auctoritas di me: “Most people will never, ever make decent money in comics. Period.
Few comics these days sell well enough to make royalties, and almost none sell well enough to make royalties that matter. […] This industry doesn't owe you a living, and it doesn't pay you to dwell on the past.” [La maggior parte delle persone non guadagnerà mai e poi mai soldi decenti con i fumetti. Pochi fumetti al giorno d'oggi vendono abbastanza bene da guadagnare i diritti d'autore, e quasi nessuno vende abbastanza bene da guadagnare i diritti d'autore che fanno la differenza. […] Questa industria non vi deve una carriera con cui possiate mantenervi e non vi paga per rimuginare sul passato.]
“This industry doesn't owe you a living.” Questa è un po’ la verità che facciamo fatica ad accettare. Che abbiamo studiato, ci siamo fatti il mazzo per crearci una professionalità, ma che l’offerta e la produzione hanno talmente ed esageratamente superato la domanda che di molt* di noi non c’è bisogno.
Questa conclusione dovrebbe essere palese per chiunque di noi lavori in ambito creativo, dai fumetti all’adv (settore in cui, come fa notare Sergio Rodriguez nel suo Vedrai che si brucia subito, molte pubblicità sono diventate delle semplici “esecuzioni di brief”, alla faccia della creatività), ed è chiaramente difficile da accettare, ma prima lo faremo, prima prenderemo provvedimenti, inclusa la possibilità/necessità di cambiare lavoro (e prima che sia troppo tardi).
Opzioni? Molto ovvie, e probabilmente molto insoddisfacenti.
- Se si vuole continuare a lavorare in un settore, fare di tutto per pubblicare lavori dove emerga la propria voce, distinta e unica rispetto a tutte le altre. E se una tua identità autoriale forte non ce l’hai, forse è un problema che dovevi porti da parecchio tempo (e se il mercato non te lo ha permesso, torniamo al discorso dei creativi che sfornano solo prodotti standardizzati… vedi la prima parte di queste riflessioni).
E ricordandoci che col diritto d’autore ci campano in pochi, anzi “Molti studi ci suggeriscono da tempo che le attuali normative in merito al copyright non avvantaggiano affatto gli autori e le autrici, ma solo grandi aziende e qualche artista molto celebre.”
- Quindi dimostrare di avere una propria voce specifica ma rimanendo comunque “nel sistema” non garantisce la possibilità di campare. Per molt* potrebbe trasformarsi - ma in parte lo è già - un letterale ritorno alla committenza (perché cosa è Patreon, se non quello?), cercando di coltivarsi una propria nicchia con un lavoro che somiglierà molto a un porta-a-porta adeguato al ventunesimo secolo.
E ovviamente esistono anche i crowdfunding: e nessuno dice di non farli, anche se non è tutto oro quel che luccica (e più si è consapevoli delle dinamiche del settore della creatività, più ci si rende conto che di oro forse non ce n’è).
- Nulla di tutto questo garantisce nulla, ovviamente. Lo ribadisco, siamo tropp* (spero si capisca che uso la prima persona plurale perché ovviamente non mi sento affatto esente da questi trend; non è che sto festeggiando pensando di essere più figo. Come sempre: osservo, analizzo, cerco di trarre conclusioni o almeno di pormi domande, ma ci sono in mezzo pure io). E il motivo per cui qualcuno di noi riuscirà a campare di creatività… non ha niente a che vedere con la nostra creatività. Il mercato dà un valore al nostro lavoro che è indipendente dalla qualità artistica del medesimo, anche se la qualità artistica è l’unica cosa che possiamo controllare.
“E cosa c’entra tutto questo con l’AI?” Il punto è in parte, ancora una volta, quello della puntata precedente: se pensi che l’AI possa rubarti il lavoro, probabilmente il tuo lavoro è diventato talmente standardizzato che lo può fare una macchina.
Se penso alle reazioni feroci dei pittori (e non solo) quando fu introdotta la fotografia, posso certamente dire che aveva ragione Baudelaire a dire che la fotografia avrebbe prodotto molte immagini brutte. Verissimo. Ma la fotografia nei decenni è diventata anche arte. E se è vero che chiunque (soprattutto oggi coi cellulari) può fare fotografie, pochissimi fotografi fanno arte coi loro scatti (questa parte è presa un po’ di peso da La rivoluzione algoritmica delle immagini per fare prima). Non so cosa sia successo quando le automobili hanno sostituito i cavalli, ma dubito che i maniscalchi siano riusciti a convincere chi doveva compiere lunghi spostamenti a non usare le auto perché loro avrebbero perso il lavoro.
Anche se (rubo ancora l’analogia a Francesco d’Isa) poi in realtà il paragone lavoro creativo/AI, più che cavallo/automobile, dovrebbe essere bicicletta/moto: si tratta di due mezzi simili, ma uno non ha sostituito/non sostituirà completamente l’altro, in quanto le finalità d’uso erano sostanzialmente diverse. Del resto, come si chiede Tommaso de Benetti: “Come mi devo regolare quando Adobe, che è nel workflow del 98% di chi lavora nel settore, continua ad aggiungere feature legate all’AI generativa ai suoi software?”
E su questo mi ero già espresso (e vedo che gente con un background totalmente diverso dal mio, come appunto d’Isa, condivide questo pensiero): dovremmo provare ad appropriarci del mezzo AI a nostro vantaggio.
Posto che esiste un’estrema confusione tra AI in generale e AI generative, riporto questo estratto da The Media Mix sul fatto che LeMonde esca in inglese:
Q: You have a deal with OpenAI. How is Le Monde using AI in journalism?
A: We have a very rigorous charter on how we can use AI in the news and that is we don’t use it to make journalism. We use it to help us do things like searching through large piles of documents, rewriting a text from French to English. We’re using AI, but not generative AI. All of our articles are translated first by Deepl and then we edit that work. [D: “Avete un accordo con OpenAI. In che modo Le Monde utilizza l'IA nel giornalismo?”
R: “Abbiamo uno statuto molto rigoroso su come utilizzare l'IA nelle notizie e cioè non la usiamo per fare giornalismo. La usiamo per aiutarci a fare cose come cercare tra grandi pile di documenti, riscrivere un testo dal francese all'inglese. Usiamo l'IA, ma non l'IA generativa. Tutti i nostri articoli sono tradotti prima da Deepl e poi noi editiamo la traduzione.”]
Questo utilizzo dell’AI pare così negativo (ah, ma avrebbero potuto pagare dei traduttori che hanno perso il lavoro! No, non avrebbero potuto pagarli, e comunque il lavoro umano di editing resta sempre. L’innovazione tecnologica non si ferma anche se regolamentata.)? Se siete scrittori e usate Deepl o altre intelligenze artificiali (chiaramente conoscere un minimo la lingua di arrivo aiuta, ma vi posso garantire che esistono casi come quello di Juan Albarran che fa manga per Kodansha e non parla a sufficienza il giapponese e usa il traduttore automatico per lavorare) potete tradurre i vostri pitch e proporvi ad altri mercati: a me sembra una cosa positiva.
Citando un collega che rimarrà anonimo, la prossima rivoluzione creativa sarà quasi certamente nei videogame indie, in cui piccoli studi grazie all’AI avranno una potenza di fuoco tale da poter fare giochi tripla A senza dover dipendere dalle major. Anche questa è una cosa MOLTO positiva, ma facciamo una semplice previsione: esplosione degli indie tripla A di qualità altissima, nuovo rinascimento dei videogames, MA numero di ore degli utenti che restano comunque limitate, utenti che non riescono a giocare a tutti questi capolavori che arriveranno, bolla, scoppio della bolla, crollo, creativi che hanno trovato lavoro a causa del momento di espansione non ne avranno più. Finale: stabilizzazione con riduzione enorme dei videogiochi in uscita.
Si fa il giro, ma si torna lì: le AI non sono il problema. Semplicemente l’eccesso di produzione di entertainment degli ultimi anni si sta necessariamente contraendo (e si contrarrà a seguito di ogni futura espansione), il che significa semplicemente che non ci sarà lavoro per tutti coloro che hanno lavorato per anni o qualche anno nel settore creativo. Sei sceneggiatore di fumetti, cinema o tv, disegnatore di fumetti, copywriter, art director, regista? Nei prossimi anni è molto probabile che non ci sarà bisogno di te. Anzi, di noi (meglio ribadire). Ora lo sappiamo. Regoliamoci come meglio crediamo (anche considerando di cambiare totalmente lavoro, come accennavo prima): purtroppo la soluzione giusta per essere tra i pochi che continueranno a camparci non c’è.
Ma se si è veri creativi, è anche ingenuo pensare che la formula ci sia.
[p.s. a questo giro, capisco che le conclusioni più “sparse” nel corso della riflessione possano risultare insoddisfacenti; nonostante questo, come già fatto per la prima parte, prego di non citarmi fuori contesto.]
Ai dati di vendita dei libri ne aggiungo uno, controintuitivo: anche quando vendi tantissimo (diciamo intorno alle 100.000 copie) se vuoi vivere della tua scrittura devi vendere tantissimo, ogni anno, con libri nuovi, perché il mercato editoriale tratta i libri come il latte che scade. È il motivo per cui gli autori italiani che vendono molto pubblicano così spesso e a volte male.