Vivere la vita come artisti è una pratica.
Si è coinvolti nella pratica
oppure no.
Non ha senso dire che non sei capace.
Sarebbe come dire: “Non sono capace di essere un monaco”.
O conduci una vita da monaco oppure no.
Tendiamo a vedere l’opera dell’artista
come il risultato.
Ma la vera opera dell’artista
è un modo di essere nel mondo.
Questo è un estratto da L’atto creativo: un modo di essere di Rick Rubin, geniale producer musicale di cui vi avevo già parlato.
In questo momento di inquietudine creativa, mi sono chiesto se questo libro mi avrebbe potuto dare degli spunti di riflessione più “alti” ( o “altri”) di libri dedicati in maniera specifica alla scrittura/sceneggiatura. E del resto Rubin si occupa di musica.
Fortunatamente è stato così.
Mi viene anche da dire che è un libro che se si legge in un momento troppo “immaturo” del proprio percorso e della propria consapevolezza da artisti, rischia di sembrare una serie di frasi da Baci Perugina della creatività. L’universo parla, ma se non sei sintonizzato nel modo giusto, rischi di sentire solo rumore.
Posto che dovrei citarvi l’intero libro, che compie un percorso (spoiler, userò questa parola moltissime volte) dal modo di essere alla pratica artistica, per me hanno risuonato in modo particolare (ma non l’ho ancora terminato, potrebbe esserci altro di interessante) le parti in cui Rubin parla di come evitare di fossilizzarsi nella proprio percorso artistico.
Talvolta decidiamo che quella formula è ciò che siamo come artisti. È ciò in cui consiste, o non consiste, la nostra voce.
Anche se un approccio di questo tipo potrebbe funzionare per alcuni creatori, per altri può rivelarsi limitante. A volte una formula può inibire la nostra produzione creativa. […]
Ti conviene mettere continuamente in discussione il tuo stesso processo creativo. Se hai già ottenuto buoni risultati ricorrendo a un determinato stile, metodo, o in particolari condizioni di lavoro, non dare per scontato che sia per forza quello il modo migliore. Il tuo modo. O l’unico modo. Evita di avere una sorta di adesione religiosa al riguardo. Forse esistono altre strategie, altrettanto efficaci e in grado di mostrarti nuove possibilità, nuove direzioni, nuove opportunità.
Non è detto che vada sempre così, ma non escluderlo.
Ecco, questo è un “pericolo” che vedo molto chiaro in una carriera di scrittore. Nonostante a volte esistano parametrici specifici di scrittura per diversi interlocutori e diversi media, ho l’impressione che quando si parla della “voce” dell’autore, nella maggior parte dei casi significhi che l’autore stesso “produce” cose che hanno sempre lo stesso mood, che girino intorno agli stessi argomenti, che in poche parole, trovata la formula giusta/comoda, l’autore resti su quella e scriva sempre le stesse cose, a volte fino a diventare la parodia di sé stesso (NOTA: chiedo scusa se uso sempre sempre il maschile, in questo ragionamento).
Uno dei modi per ovviare a questa cosa, secondo me - e non è detto che valga per tutti, e non è detto che valga per ogni tipo di attività artistica - è il lavoro in collaborazione, ovviamente nel mio caso specifico la scrittura in collaborazione.
Non dare per scontato
che il modo in cui lavori
sia il migliore
solo perché
è quello che hai adottato finora.
Il processo di scrittura in comune con qualcuno può andare “bene” o “male”. No. Molto banale, messa così. Articoliamo: si può scoprire di essere sulla stessa lunghezza d’onda e il lavoro diventa reciprocamente propulsivo (e migliorativo), oppure si possono avere approcci e gusti leggermente o molto divergenti e la necessità diventa quella di trovare un percorso comune anche quando le intenzioni e le sensibilità non vanno nella medesima direzione, anzi forse in direzioni opposte. Ma a parte la pratica, che nel secondo caso è più faticosa, entrambe le situazioni sono positive. In senso duplice.
- Partiamo dal punto di vista del lettore: è chiaro che l’esito di una scrittura collaborativa avrà una voce, un tono, un mood diversissimo da quello che potresti avere scritto da solo (forse è un’ovvietà, ma è anche vero che non sempre questo aspetto viene colto).
E questo è stupendo per il lettore stesso, che può leggere/vedere qualcosa che è chiaramente non solo somma di parti, ma anche inaspettato prodotto di due elementi chimici che hanno reagito in un modo non prevedibile. Infatti non solo se si spinge nella stessa direzione, ma anche se esistono due poli che spingono magneticamente/narrativamente in direzioni opposte, la necessità di far collassare in prodotto finito la tensione quantistico-narrativa delle due visioni diverse produrrà comunque qualcosa di interessante: in quanto anche la tensione è buona, in quanto per definizione dinamica.
- Ma pensiamo anche all’altro aspetto, quello della propria creatività: potresti scoprire anche cose nuove sul tuo processo creativo, cose che prima non sapevi o neanche vedevi.
Per ogni regola che accetti
in merito a ciò che puoi o non puoi fare come artista…
in merito a ciò che la tua voce è o non è…
in merito a ciò che dovresti fare per svolgere il lavoro o a ciò che non ti serve…
varrebbe la pena tentare l’esatto opposto. […]
Pensa a una regola come a uno squilibrio. [nota: grassetto mio, da questa frase e questo brano è partita la riflessione che è la newsletter di oggi]. Buio e luce acquistano significato solo nel loro rapporto reciproco. Senza di uno, non esisterebbe l’altra. Sono un sistema dinamico complementare, come lo yin e lo yang.
Esamina i tuoi metodi e cerca di capire quale potrebbe essere l’approccio opposto. Che cosa potrebbe riportare equilibrio? Quale potrebbe essere la luce necessaria al tuo buio, o il buio necessario alla tua luce? Non è raro che l’artista si concentri su uno dei due estremi. Anche se non scegliamo di creare un’opera che sia sul versante opposto, rendersi conto di questa polarità può informare le nostre scelte.
Una collaborazione, sia quelle “reciprocamente propulsive”, sia quelle “a poli divergenti/opposti in tensione”, ti costringono a vedere il tuo lavoro “in negativo”, anche se con modalità, profondità e lenti diverse; e qui faccio degli esempi terra terra che spero non banalizzino quanto postulato finora: sei sempre stato lento nello scrivere i primi draft, ma i tuoi primi draft erano già il lavoro finito al 90%. In un lavoro di gruppo, potresti essere tu a dovere (per motivi più vari, per esempio impegni del tuo “copilota”) a buttare giù il vomiting draft, e questo potrebbe essere buono all’80% o meno, ma costituisce un brutale primo step di avanzamento necessario. Oppure sei sempre stato un macellaio del “Ok, questa stesura è buona, forse potrei fare un altro polish, ma va già bene e comunque siamo in ritardo quindi non aggiungiamo altro ritardo”, ed essere “costretto” a diventare un certosino maniaco del ritocco perché ti è arrivato un draft (vomiting o meno) dove vedi problemi, dove hai in mente soluzioni narrative diverse, dove quello che era stato deciso sembrava funzionare in teoria ma poi non funziona più in pratica. Potresti avere scritto per tutta la tua carriera di scrittore solista dialoghi ultrarapidi, concisi, e che al contempo caratterizzavano il personaggio, e ritrovarti tra le mani un prodotto dove i personaggi parlano tantissimo, e in quel caso allora hai il coraggio di sperimentare come funziona il dialogo esteso ed alta densità di informazioni, anzi, tenti un approccio da serie tv americana, dove ogni frase non è “buttata” ma è un’informazione nuova che cambia le carte in tavola e porta avanti la storia.
Tutto questo - ribadiamo per l’ennesima volta - è comunque positivo per il tuo processo creativo, per farti percorrere nuove strade, che magari ti facevano paura, ma in cui adesso sei costretto a camminare. Da queste esperienze la tua “voce” cambia, in quanto seguendo l’approccio di cui parla Rubin ne è arricchita:
Per ogni regola che segui, valuta la possibilità che il suo contrario potrebbe essere altrettanto interessante. Non necessariamente migliore, solo differente.
Posso immaginare qualcuno che potrà obiettare che non sempre si riesce a trarre un insegnamento da esperienze difficili, che il lavoro vero, il lavoro “pagato” non può essere terreno di sperimentazione. Ma a volte invece sì: a volte un’etichetta editoriale è impostata in maniera programmatica sul violare eventuali regole e limiti di una casa editrice, un’etichetta musicale è impostata sulla sperimentazione di generi e sound su cui la casa discografica non ha mai puntato prima. Sempre più raramente, ma questi momenti/situazioni esistono ancora.
Se però permangono ancora dubbi, non ho ovviamente certezze da offrire (mi parrebbe perfino contradditorio rispetto a quanto scritto finora), quindi lascio parlare Rubin, ancora (grassetti miei):
Non esiste un modo giusto per sperimentare. […] Le direzioni da esplorare sono infinite, e fino a quando non le avremo testate non potremo mai sapere quale ci condurrà a un vicolo cieco e quale ci trasporterà in nuove dimensioni. […]
Al cuore dell’esperimento c’è il mistero. […] Rimani aperto al nuovo e all’ignoto. Parti da un punto di domanda e salpa per un viaggio di scoperta. […]
Se hai un seme soltanto - una visione specifica che vuoi portare avanti - va benissimo. Non c’è un modo giusto o sbagliato. Tuttavia considera anche la possibilità che questo approccio possa rivelarsi un limite, perché ti impedisce di sfruttare tutto quello che hai dentro. Restare aperti alle possibilità ti porta in un luogo in cui desideri andare, e dove forse neppure eri consapevole di voler andare.
Sapere che cosa fare, e farlo, è il lavoro dell’artigiano.
Partire da un punto interrogativo e usarlo come guida in un’avventura di scoperta, è il lavoro dell’artista. Le sorprese che incontrerai strada facendo possono espandere la tua opera, e persino quell’intera forma d’arte.
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